Celluloid Jam per Il Mucchio

La galleria Etra – Studio Tommasi ha ospitato l’intervista del trio fiorentino Celluloid Jam per Il Mucchio, con foto di Sara Mautone.  Le foto Condividiamo di seguito l’intervista pubblicata su Mucchio Selvaggio.

“Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione persino biologica”.
Salvator Allende era un inguaribile, e adorabile, ottimista. Già, perché per molti, oggi, uno dei vantaggi della giovinezza consiste, al contrario, nell’avere sempre una scusa pronta se non si è (ancora?) riusciti a cambiare il mondo. Eppure, esiste anche chi di una tale attenuante ha scelto di farsi carico in positivo, per conquistarlo questo mondo. A colpi di curiosità, autoironia, disincanto. Perché la giovinezza, in fondo, non è altro che il piacevole limbo tra l’indipendenza e la responsabilità. Ed è da questa stravagante terra di mezzo che parte la missione dei Celluloid Jam, trio formato da Caterina, Jerro e David, rispettivamente voce, synth e visuals. Fiorentini di nascita, cittadini del mondo di adozione, la loro musica porta fieramente il baluardo della Youth, come dichiara il titolo del loro primo ep pubblicato da White Forest, non temendo di mettere da parte le sperimentazioni prettamente indie per attingere a piene mani all’universo pop e alla sua estetica giocosa e variopinta, ricca di spunti e derive vintage sempre attuali, tra suggestioni new wave anni ’80 e atmosfere psichedeliche. Le loro performance si distinguono per l’interazione tra suoni e immagini, da assaporare con tutti i sensi. Portatori di un credo che si muove alla conquista del proprio spazio vitale, scommettono tutto sul potere sovversivo dell’incoscienza.

Facciamo un salto indietro nel tempo. Come nascono il progetto, il nome, e la filosofia che identificano i Celluloid Jam? Qual è il percorso che ha caratterizzato la vostra formazione? So che tutto ha avuto inizio qualche anno fa in quel del Jazz Club di Firenze.
C+J: Esatto, ci siamo conosciuti sei anni fa al Jazz Club, ma abbiamo cominciato a fare musica insieme molto dopo, e abbiamo incontrato David nel 2013. Il progetto ha più o meno due anni d’età, anche se stiamo cominciando a concretizzare il tutto solo ora! Il nome Celluloid Jam deriva da una citazione del Rocky Horror Picture Show, un classico che ci ha ammaliato, forgiando la nostra estetica. Fondamentalmente siamo un grande “work in progress”: il nostro pensiero consiste nel cercare costantemente nuove fonti di ispirazione ed evoluzione, sia musicale che visuale. Viviamo ascoltando musica di ogni genere, a cui affianchiamo moodboard di immagini, parole e suoni… Ci piace molto sperimentare!

Avete scelto di combinare musica e visual art per dare vita a un progetto non comune per il panorama italiano. Quindi per voi le immagini contano quanto i suoni?
C: Assolutamente sì! Per me rappresentano un passo fondamentale nel processo creativo, supportate anche dalla mia immaginazione fortemente cinematografica. Di solito quando lavoriamo in sala prove e il pezzo ci appassiona, riesco subito a immaginare una precisapalette di colori e delle immagini, e David è bravissimo nel dare vita alle nostre creazioni sotto forma di live visuals. Per lui creare delle proiezioni è una passione, che si sposa con il mio vissuto in teatro, quando ballavo sulle punte ed ero affascina da costumi e scenografie. Non credo che l’aspetto musicale debba lasciare il passo a quello visuale, né viceversa, in quanto l’uno senza l’altro sarebbero incompleti.

Il vostro ep d’esordio non poteva vantare titolo più azzeccato di Youth, come suggerisce la copertina: la polaroid di una gioventù “bruciata” quanto basta per risultare immortale, edulcorata al punto giusto dal filtro retro-futuristico del vostro colorato occhio musicale. Ma, allora, il segreto per essere davvero avantiè quello di guardarsi alle spalle? Sembra divenuta una costante ormai, non solo in ambito musicale.
J: Penso che da sempre chi fa arte abbia saputo guardarsi alle spalle ed elaborare gli spunti provenienti dal passato. È proprio miscelando tutto ciò con ispirazioni contemporanee che si creano i filoni più interessanti! Tuttavia siamo contro ogni forma di nostalgia estrema, che rievoca i fasti di un passato ormai perduto. Secondo noi l’arte odierna deve riflettere il nostro tempo, ci sono troppe battaglie da affrontare per non parlarne.

La vostra musica si distacca dalle caratteristiche produzioni della White Forest, per avvicinarsi a un suono che risulta più comprensibile, diretto e accattivante, funzionale proprio perché non pretende niente da chi lo ascolta, se non di essere vissuto. Come mai questa scelta di orientarvi verso una maggiore semplicità? Il rischio che sia presa per superficialità è dietro l’angolo.
C+J: Per noi fare musica significa comunicare, e il pop ci permette di farlo al meglio con un pubblico variegato. Non è stata una scelta ponderata, ma piuttosto naturale. Ciononostante, non amiamo definire il nostro progetto con etichette precostituite. Chi è estraneo a questo mondo lo definisce come semplice e banale, ma in realtà creare musica catchy può essere un’ardua sfida! Che spesso regala vere gioie: basta ascoltare il lavoro di super artisti come Grimes, Charli XCX e Sophie.

Come e quanto ha contribuito a farvi imboccare questa strada la scelta di ricorrere a strumenti di tipo analogico, e di tradire invece il digitale? Che ne pensate della musica suonata dai computer?
J: Per me non è significativa la differenza tra analogico e digitale, ma è importante essere riuscito a chiudere un ep senza l’utilizzo di software, solo grazie ai sintetizzatori in camera mia. È una domanda difficile, perchè qualsiasi tipo di musica a un certo punto esce da un computer. Assistere a un live di un artista che suona esclusivamente il suo laptop può essere alienante, ma ciò non toglie niente al valore della sua musica.

Quali sono i vostri artisti di riferimento? Cosa vi piace ascoltare in questo periodo? E cosa vi piace guardare, gustare, toccare?
C+J: Il nostro primo amore, nonché la scintilla primordiale, sono stati gli Animal Collective. Da quando li abbiamo scoperti niente è stato più come prima! Altri artisti di riferimento sono, oltre agli altri già citati: Gwen Stefani, Enya, John Wizards, Giorgio Moroder, Snoop Dogg, Darkside, e in generale tutto ciò che ci passa per la testa. Fisse attuali di Cate: Hana, Santigold, Peaches, Cher, Christine & The Queens, Charli XCX, ultimo album di Madonna. Fisse attuali di Jerro: fumare ascoltando Major Lazer.
C: Mi piace guardare Pinterest, Tumblr e l’Instagram di Baddie Winkle, Marnie the Dog e la make up artist Isamaya Ffrench. Online leggo “Rookiemag”, il blog “Bitch Media” e guardo i video di “NOWNESS” e altro. Cerco di uscire il più possibile, Jerro è un lupo solitario e pantofolaio, ma io sono curiosa e iperattiva. A livello tattile mi piace la pelliccia finta, velluto, glitter e piume varie. Siamo entrambi vegetariani, a parte David che addenterebbe un cinghiale selvatico, e grazie all’acquisto di un frullatore sto diventando una Smoothie Master! C’è un modo di elencare tutto ciò senza sembrare una quattordicenne?

Che rapporto avete con i social media? Oggi come non mai rivestono un ruolo sempre più centrale nel percorso di ascesa di un artista, con tutti i pro e i contro del caso.
C: I social media ci piacciono, ci permettono di restare in contatto con chi ci segue, oltre a facilitare il dialogo tra artisti: abbiamo conosciuto tante persone su Facebook, che sono poi diventati amici in real life. Sono io l’incaricata del gruppo a postare sui social, e non mi interessa pubblicare a una determinata ora o contare il numero di like. Il mio scopo è quello di fare musica e promuoverla, non aspiro a diventare una social media manager! I social devono essere vissuti con un approccio ludico, anche se non leggero; se pubblicare diventa una schiavitù, c’è qualcosa che non va. Io lo faccio quando posso e senza stress, magari da tablet o pc, visto che possiedo un telefono preistorico.

Siete stati appena selezionati per l’episodio fiorentino di uno dei documentari promossi dal brand Palladium Boots, assieme ad altre promettenti realtà locali del mondo dell’arte e della moda. Molti gruppi di Firenze si lamentano spesso di quanto sia difficile suonare nella loro città. Cosa ne pensate della scena musicale fiorentina? E di quella italiana? Siamo ancora così indietro come molti lamentano?
J: È necessario considerare il tipo di musica proposta da una band, dove viene proposta, e le varie aspettative a riguardo. Personalmente ritengo che avendo le idee chiare di cosa si vuole fare e come, a Firenze gli spazi non manchino. A volte è più facile lamentarsi che rimboccarsi le maniche! Riguardo al panorama italiano, abbiamo avuto esperienza di realtà belle e interessanti, caratterizzate da persone appassionate e capaci, sia  artisti che organizzatori.  Purtroppo abbiamo ancora diversi problemi da affrontare: il fatto che risulti ancora difficile esportare un progetto italiano all’estero, oltre che l’esterofilia sempre troppo radicale che porta gli addetti ai lavori a investire più risorse in prodotti stranieri.

Youth consta di quattro brani il cui cantato si delinea fin dal primo ascolto fresco e piacevole. Non è questa forse l’essenza peculiare del pop? Che significato dareste oggi al termine?
J+C: Per noi il mondo pop è una fonte di ispirazione incredibile e non ci vergogniamo di essere associati al genere. Il pop che cerchiamo di portare avanti è figlio del suo passato, grazie alle melodie orecchiabili, ma si distanzia notevolmente da esso, in quanto rifiutiamo ogni tipo di banalità del linguaggio e dei testi. Più che andiamo avanti e più entriamo in contatto con battaglie che ci appassionano: post-femminismo, diritti LGBTQ, ecologia e attivismo ambientalista. Ciò che ci sta a cuore non può essere ignorato. I pezzi a cui stiamo lavorando manterranno le stesse promesse melodiche di Youth, pur trasmettendo ideali e prese di posizione forti.

Assistente: Leonardo Bertuccelli
Abito: MirkoG. Di Brandimarte
Calze: Emilio Cavallini
Orecchini: Livia Lazzari Vodoo Jewels